Thursday Doc: John Brisker
Non è stato solo un giocatore di basket, è stato a modo suo un precursore, un giocatore per cui le definizioni di duro e cattivo non sono bastate. Ecco a voi la storia di John Brisker.
Non è stato solo un giocatore di basket, è stato a modo suo un precursore, un giocatore per cui le definizioni di duro e cattivo non sono bastate. Ecco a voi la storia di John Brisker.
THURSDAY DOC
John Brisker
Per una volta la storia la facciamo iniziare dalla fine. Sempre che si possa definire tale. Diciamo quanto meno la fine ufficiale. Maggio 1985 , a Seattle, la King County Washington Medical Examiner dopo sette anni dalla sua sparizione dichiara John Brisker ufficialmente morto. In assenza di cadavere, in assenza di qualunque prova fisica dell’avvenuta morte. Brisker è partito per un viaggio in Uganda nell’Aprile del 1978 e da quel momento se ne sono perse le tracce. Non è mai ufficialmente uscito dal paese africano, in cui si è svolta una sanguinosa guerra civile che ha portato alla caduta del regime dittatoriale, sanguinario e folle di Idi Amin, uno che decise di proclamarsi Regina di Scozia, si, Regina!!
Leggendo le statistiche del Brisker giocatore, in sei anni da professionista, tre nella ABA e tre nella NBA, quasi 21 ppg, verrebbe da chiedersi come un uomo di trent’anni sia potuto finire in quella zona del mondo in quel periodo, ma cercando all’interno della vita del nativo di Detroit si capisce che i segnali del destino infausto erano presenti sin dalla giovane età. Nel 1972 al Courier Journal durante un’intervista sulla sua fama di cattivo ragazzo disse:
Sometimes, people say fate has a lot to do with what happens to somebody, i don’t buy that
John Brisker nasce il 15 Giugno 1947 a Detroit, Michigan. Cresce in una famiglia numerosa a Hamtramck, zona nord dell’area metropolitana di motor city, tra mille difficoltà. Ad esempio la madre, unico genitore presente, resta emiplegica causa malattia vascolare, ma quando i servizi sociali decidono di toglierle i figli in mancanza di un reddito fisso, trova un lavoro e malgrado le precarie condizioni fisiche riesce a mantenere la famiglia. Non è una vita facile per il John bambino, in una metropoli molto difficile come la Detroit degli anni 50. Il basket è la sua prima passione, da adolescente è leggenda nei playground della città, il sapersi difendere con maniere forti diventa la seconda, o forse la prima anch’essa. Ma le sue capacità tecniche si manifestano negli anni della High School.
Brisker cresce fisicamente, ed oltre ai cm la sua passione per la boxe contribuisce a renderlo muscolarmente forte. E’ un attaccante nato, buon tiro, feroce nell’andare a canestro e a rimbalzo. E dopo una meravigliosa stagione da senior, decide di andare al college a Toledo, Ohio. Pur essendo 194 cm può giocare sia guardia che ala piccola, vista la potenza fisica che è in grado di mettere in campo.Si è già fatto un nome cestistico. Una concessionaria Buick gli presta quotidianamente una macchina, in una sorta di pubblicità occulta, con cui lui gira per la città insieme a Rudy Tomjanovich e Spencer Haywood, altri due che diranno qualcosa nella NBA.
A Toledo, per tre anni le cose vanno bene. Non pensa solo al basket, eccelle nel football, nella boxe, nelle arti, suona la tuba nella banda del college, vorrebbe addirittura provare ad incidere un disco di musica jazz, la sua preferita. Si appassiona tantissimo alla cultura africana, specie quella dei paesi del Centro-Africa, e li iniziano i problemi. USA anni 60. Per di più nativo di Detroit, dove nel 1967 scoppia una delle più sanguinose rivolte razziali della storia del paese.
Brisker inizia a manifestare qualche problema di gestione della rabbia verso chi non la pensa come lui. Gli episodi si susseguono, e nel 1968 viene espulso dall’università ufficialmente per non aver raggiunto la sufficienza nel rendimento scolastico.
La sua versione sarà chiaramente diversa, sosterrà che la vita nel campus era caratterizzata da una netta divisione tra gli studenti bianchi e quelli neri, senza che ci fosse un’integrazione, con episodi continui di discriminazione a cui lui rispondeva non necessariamente a parole.
Ma non si perde d’animo. Vistosi chiuso il futuro NBA, all’epoca dovevi avere quattro anni di college per essere scelto nel draft, ripiega, se così si può dire, nella ABA, firmando un contratto da professionista con i Pittsburgh Pipers. I suoi anni a Pittsburgh sono cestisticamente meravigliosi. Realizzatore prolifico sin da rookie, Due volte chiamato all’All Star Game, carrer high di 53 punti, e molte volte sopra i 40. Ma il lato oscuro non tarda ad arrivare. Sul parquet si distingue per un gioco durissimo, fatto di gomiti alti, intimidazione verbale, e non solo, di body check da giocatore di football, non fa mai un passo indietro. Ed accetta tutte le provocazioni degli avversari.
Nel 1971 durante una partita contro i Denver Rockets, Art Becker decide di usare i gomiti contro di lui dopo nemmeno due minuti di gioco. La reazione di Brisker sarà ricordata da tutti, compagni, avversari e polizia locale. Colpisce Becker con due pugni violenti mettendolo per terra, non pago tenta di aggredirlo altre tre volte, una rientrando in campo dalla tribuna. Aggredisce anche i quattro poliziotti che tentano di portarlo via, viene arrestato e rilasciato grazie all’intervento della dirigenza della franchigia. Fuori è anche peggio. Gira costantemente armato, presentandosi con una pistola anche agli allenamenti, viene coinvolto in risse e aggressioni.
Celebre quella durante le World Series MLB del 1971 sempre a Pittsburgh, dove Brisker, in compagnia della fidanzata, per una lite sulla precedenza per salire su un taxi picchia selvaggiamente il malcapitato, e anche qui viene arrestato per aver aggredito i poliziotti intervenuti. Nella lega viene chiamato “the heavy weight champion of the ABA”, ed a Pittsburgh cavalcano questa fama da bad boy fotografandolo in versione pistolero. Certo la cosa genera qualche problema anche nei suoi compagni di squadra. Charlie Williams affermerà che Brisker poteva essere definito anche un bravo ragazzo, solo che non sapevi mai se veniva da te per parlarti o per spararti, ma in campo non si discuteva.
Dopo le tre stagioni nella ABA, Brisker decide di monetizzare il suo contratto ed accetta la proposta dei Seattle Sonics, $1 milione all’anno per sei anni, finendo nella NBA, raggiungendo il suo amico Haywood. Ma il suo ingresso nella NBA non è visto bene dai vertici della lega, sia per i pessimi rapporti tra le due leghe che proprio per la sua fama.
Ed infatti i suoi minuti calano drasticamente, certo è sempre un attaccante di livello elevato, ma diventa una sorta di sesto uomo, cosa che non viene accetta benissimo. La prima stagione ai Sonics non va nemmeno male, anche a livello di comportamento.
Ma dalla seconda le cose peggiorano drasticamente. Arriva come head coach Bill Russell, ed i rapporti tra i due non decollano, anzi. Intanto perché al primo allenamento Brisker decide di replicare ad un energico tagliafuori di Joby Wright spaccandogli mandibola e quattro denti. Poi a coach Russell, Brisker non piace, anche tecnicamente.
Sono due stagioni cestisticamente terribili, e non solo. L’aria che si respira nello spogliatoio Sonics è definita da tutti pesantissima. Brisker vede ridursi ulteriormente il suo minutaggio, ma non demorde. Certo non è felice, ma quando chiamato in causa il suo lo fa. Si arriva al 31 Gennaio 1975. Il nativo di Detroit segna 28 punti facendo vincere in rimonta i suoi Sonics contro i Blazers.
E’ da tanto che non gioca, ha dovuto subire anche l’onta di essere spedito in una sorta di lega minore, e dopo quella partita, nello spogliatoio accade di tutto. Slick Watts e Tom Burleson ricorderanno, anni dopo, di aver seriamente temuto per la vita del loro head coach.
Brisker aggredisce Russell ed è tenuto, a fatica, dai suoi compagni di squadra. Oltre all’agressione arrivano le minacce, serie. La sua carriera professionistica finisce in pratica qui. Non rivede più il parquet, e alla fine della stagione si decide per un buy out, 50 centesimi per ogni dollaro di contratto restante.
Nessuna altra squadra NBA si fa viva per offrirgli un posto. In un intervista rilasciata a Philadelphia dichiarerà che Russell gli ha rovinato la reputazione, ma che a lui di essere considerato un cattivo ragazzo non interessa. Esce dai radar del basket giocato, frequenta saltuariamente solo Spencer Haywood. Altri sono i problemi. Apre un’attività di import-export, viaggia molto.
E finisce nei guai ancora una volta per aggressione nei confronti della moglie nel 1977, rendendola quasi sorda.
Poi l’epilogo.
Nell’Aprile del 1978 parte per l’Uganda, chiama casa il giorno 11 poi non se ne saprà più nulla. E qui le voci sulla sua sorte si rincorreranno per anni. Slick Watts dichiarerà di aver saputo che è stato assassinato dalle milizie di Amin dopo una cena in cui lui, che sarebbe stato nominato allenatore della nazionale ugandese, manifestò il suo dissenso sul regime del dittatore.
Secondo il governo USA, invece, sarebbe stato giustiziato dalle forze rivoluzionarie, in quanto essere risultato mercenario al servizio del dittatore. Voci mai verificate lo mettono nelle vittime del suicidio/omicidio di Jonestown, in quanto divenuto un seguace del reverendo Jim Jones.
Il fratello, in epoca recente, dichiarò che Brisker in Uganda non c’era mai andato, e che nel 1978 il suo viaggio fosse stato prenotato per Lagos, in Nigeria. Di sicuro c’è che dal momento della sua scomparsa nessuno ha mai più toccato i soldi presenti sul suo conto, all’epoca $29.000 , e che nessuno lo ha mai più visto ne sentito.
Per anni si rincorreranno le voci più disparate sulla sua sorte. Ma di lui nessuna avrà più nessuna traccia. Fino alla dichiarazione ufficiale di morte.
Arrivederci alla prossima puntata.
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